L'OMBRA
L’intera creazione esiste in te e tutto quello che è in te esiste anche nella creazione.
Non esistono confini fra te e un oggetto che è accanto a te, proprio come non esiste distanza fra te e oggetti molto lontani. Tutte le cose, le più piccole come le più grandi, sono presenti in te e uguali a te. Un unico atomo contiene tutti gli elementi della terra.
Un solo movimento dello spirito comprende tutte le leggi della vita. In un’unica goccia d’acqua si cela il segreto dell’oceano infinito. Un’unica tua manifestazione rivela tutte le manifestazioni della vita (Kahlil Gibran).
L’uomo dice ” Io ” e con questo termine intende un’infinità di diverse identificazioni:
” Io sono un essere di sesso maschile, di nazionalità tedesca, padre di famiglia, insegnante. Sono attivo, dinamico, tollerante, bravo, amante degli animali, amate della pace, bevo il tè, ho per hobby la cucina, ecc. “. Queste identificazioni sono state a un certo momento precedute da scelte: una possibilità è stata preferita ad un’altra, un polo è stato integrato nell’identificazione mentre l’altro è stato escluso.
Così l’identificazione: ” Io sono attivo e bravo ” esclude automaticamente:
” Io sono passivo e pigro “.
Da un’identificazione deriva per lo più molto rapidamente anche una valutazione: ” Bisogna essere attivi e bravi – non è bene essere passivi e pigri “. Indipendentemente dal fatto che una simile valutazione possa essere sostenuta da argomentazioni e teorie, si tratta in ogni caso di un punto di vista soggettivamente convincente.
Oggettivamente questa è semplicemente una possibilità di vedere le cose – non certo l’unica. Che cosa penseremmo infatti di una rosa rossa che proclamasse: ” È giusto e bello avere dei fiori rossi, e invece è sbagliato e pericoloso averli azzurri “. Il rifiuto di una qualunque manifestazione è sempre, segno di carente identificazione (e in effetti la violetta non rifiuta certo i fiori azzurri!).
Ogni identificazione che si basa su una decisione esclude un polo. Però tutto ciò che noi non vogliamo essere, che non vogliamo ritrovare in noi, che non vogliamo vivere, che non vogliamo che entri a far parte della nostra identificazione, costituisce il nostro lato d’ombra. Infatti il rifiuto della metà di tutte le possibilità non fa certamente si che queste spariscano, ma le bandisce semplicemente dalla identificazione dell’Io o dalla coscienza superiore.
Il ” no ” ha eliminato dalla nostra visuale un polo, ma non lo ha fatto sparire. Il polo rifiutato continua infatti a vivere ininterrottamente nell’ombra della nostra coscienza.
Come i bambini piccoli credono che chiudendo gli occhi si diventi invisibili, allo stesso modo gli uomini credono di potersi liberare di una metà della realtà rifiutando di accettarla dentro di sé. Così si permette a un polo (per esempio la virtù) di entrare nella luce della nostra coscienza, mentre il polo opposto (pigrizia) deve restare nell’ombra, in modo da non vederlo. Il non vedere porta rapidamente a concludere di non avere quella determinata caratteristica e si crede che un polo possa esistere senza l’altro.
Noi definiamo ombra (concetto coniato da C.G. Jung) la somma di tutte le realtà rifiutate, quelle che l’uomo non vede, o non vuol vedere, e che per lui sono quindi inconsce. L’ombra è il pericolo maggiore dell’uomo, perché essa è in lui senza che lui lo sappia. L’ombra fa si che tutte le intenzioni e gli sforzi dell’uomo si trasformino alla fine nel loro opposto. Tutte le manifestazioni che derivano dall’ombra vengono dall’uomo proiettate su un anonimo ” male ” che esisterebbe nel mondo, in quanto ha paura di trovare in se stesso la vera fonte di ogni aspetto negativo.
Tutto ciò che l’uomo non vuole e non desidera, deriva dalla sua propria ombra, che è la somma di ciò che egli non vuole avere. Però il rifiuto di confrontarsi con una parte della realtà e di viverla non porta affatto allo sperato successo. Al contrario, le realtà rifiutate costringono l’uomo ad occuparsi di loro in maniera particolarmente intensa. Questo avviene per lo più attraverso il giro vizioso della proiezione, perché se si è rifiutato e represso in sé un determinato principio, fa sempre paura incontrarlo di nuovo nel cosìddetto mondo esteriore.
Per poter seguire questi rapporti, può essere importante ricordare ancora una volta che col termine ” principi ” noi intendiamo piani di esistenza archetipi che possono manifestarsi in una gigantesca varietà di forme concrete.
Ogni manifestazione concreta è quindi un rappresentante formale di quel determinato principio. Per esempio: la moltiplicazione è un principio. Questo principio astratto può presentarsi a noi nelle più diverse manifestazioni (tre per quattro, otto per sette, 49 per 348, ecc.). Queste espressioni esteriori sono però tutte rappresentanti dell’unico principio della ” moltiplicazione “. Inoltre dobbiamo avere ben chiaro il fatto che il mondo esteriore è costruito coi medesimi principi archetipi di quello interiore. La legge di risonanza afferma che noi possiamo venire in contatto soltanto con ciò che suscita in noi una risonanza. Questa verità, che ho esposto nel mio precedente libro ” Il destino come scelta “, porta all’identità di mondo esteriore e mondo interiore.
Nella filosofia ermetica questa uguaglianza di mondo esteriore e mondo interiore viene rappresentata coi termini di uomo e cosmo: microcosmo = macrocosmo. (Nella seconda parte di questo libro tratteremo ancora una volta questo aspetto nel capitolo dedicato agli organi dei sensi, da un altro punto di vista).
Proiezione significa quindi che noi con una metà dei principi creiamo il fuori in quanto non vogliamo accettarli come dentro. Già all’inizio abbiamo detto che l’Io è responsabile della delimitazione della somma di tutto ciò che esiste. L’Io crea un Tu, che viene vissuto come fuori.
Se però l’ombra è costituita da tutti quei principi che l’Io non ha voluto integrare, in ultima analisi ombra e fuori sono la stessa cosa. Noi sperimentiamo la nostra ombra sempre come fuori – e del resto se fosse dentro di noi o presso di noi non sarebbe più ombra, I principi rifiutati, che apparentemente ci pervengono dall’esterno li combattiamo ora appassionatamente nel mondo esterno a noi proprio come li avevamo combattuti dentro di noi.
Continuiamo cioè nel tentativo di eliminare definitivamente i campi da noi valutati negativi. Dato però che ciò è impossibile in base alla legge di polarità, questo tentativo disperato si trasforma in una occupazione a tempo pieno, che ci garantisce un continuo intenso lavoro con la parte rifiutata della realtà.
Ritroviamo qui una legge ironica cui nessuno può sottrarsi: l’uomo si dedica soprattutto a ciò che non vuole. Nel far questo si avvicina tanto al principio rifiutato che finisce per viverlo!
Il lettore non dovrebbe dimenticare queste parole: il rifiuto di un qualunque principio fa con certezza in modo che la persona viva direttamente questo principio. In base a questa legge i figli col tempo assumono i comportamenti che odiavano nei genitori, i pacifisti diventano militanti, i moralisti licenziosi, gli apostoli della salute si ammalano gravemente.
Non si dovrebbe trascurare il fatto che anche rifiuto e lotta significano in ultima analisi dedizione e attività. I campi veramente interessanti e importanti per una persona sono proprio quelli che evita e combatte, proprio perché mancano nella sua coscienza e gli danno un senso di malessere. Una persona è disturbata soltanto da quei principi esterni a lui che non è in grado di integrare dentro di sé.
A questo punto dovrebbe risultare chiaro che in realtà non esiste un mondo circostante che ci forma, ci influenza o ci fa ammalare – il mondo circostante si comporta come uno specchio nel quale noi vediamo sempre e soltanto noi stessi, per l’esattezza anche e soprattutto la nostra ombra, per la quale in genere siamo ciechi.
Come guardando il nostro corpo fisico riusciamo a vederne soltanto una piccola parte, e non siamo affatto capaci di vederne vari aspetti (colore degli occhi, viso, spalle, ecc.) se non con l’aiuto di un riflesso nello specchio, allo stesso modo per quello che riguarda la nostra psiche siamo parzialmente ciechi e possiamo riconoscere la parte a noi invisibile (ombra) solo tramite la proiezione e il riflesso del cosìddetto mondo esterno o mondo circostante. La conoscenza ha bisogno della polarità. Specchiarsi serve però soltanto a chi si riconosce nello specchio, altrimenti è un’illusione. Chi vede nello specchio i propri occhi azzurri, ma non sa che si tratta dei propri occhi, si illude e non acquista conoscenza. Chi vive in questo mondo ma non si rende conto che tutto ciò che percepisce e vive è lui stesso, rimane nell’illusione e nell’inganno. È vero che l’illusione risulta incredibilmente vera e reale (…certuni parlano addirittura di fatti dimostrabili) però non si dovrebbe mai dimenticare questo: anche un sogno risulta perfettamente reale fintanto che ci troviamo in esso.
Bisogna svegliarsi per rendersi conto che il sogno è un sogno. Questo vale anche per il grande sogno della nostra esistenza. Bisogna prima svegliarsi per poterci render conto dell’illusione. La nostra ombra ci infonde paura. Questo non deve meravigliare, in quanto essa consiste esclusivamente di tutte quelle parti di realtà che abbiamo allontanato il più possibile da noi. L’ombra è la somma di tutto ciò che noi crediamo fermamente che dovrebbe essere eliminato dal mondo affinché il mondo possa essere bello e sano.
Ma le cose stanno esattamente all’opposto: l’ombra contiene tutto ciò che il mondo – il nostro mondo – ha bisogno di avere per sanarsi. L’ombra ci rende malati in quanto ci manca la sua presenza per poter essere interamente sani.
Il racconto del Graal tratta proprio questo problema. Il re Amfortas, ferito dalla lancia del mago Klingsor, o in altre versioni da un avversario pagano o addirittura da un nemico invisibile, è ammalato. Tutte queste figure sono evidentemente chiari simboli dell’ombra di Amfortas, dell’avversario invisibile. La sua ombra lo ferisce e con le sue forze egli non può sanarsi in quanto non osa interrogarsi sulla vera causa della propria ferita. La domanda necessaria da porsi sarebbe però quella circa la natura del male.
Dato che non vuole esporsi a questo conflitto, la sua ferita non può cicatrizzarsi e il re aspetta un redentore che abbia il coraggio di porre la domanda risanatrice. Parzifal è all’altezza di questo compito, perché – come dice il suo nome – egli attraversa la polarità di bene e male e si conquista quindi il diritto di porre la domanda redentrice: “ Di che cosa hai bisogno, zio? “.
La risposta è sempre la stessa, sia che venga da Amfortas che da qualunque altro malato: ” La tua ombra! “.
Soltanto la domanda relativa al male, al lato scuro dell’uomo, ha effetti risanatori nella nostra storia. Parsifal nel suo cammino si è confrontato coraggiosamente con la propria ombra ed è disceso nelle buie profondità della propria anima – fino a maledire Dio. Chi non rinnega questo cammino attraverso le tenebre, diventerà infine un autentico latore di salvezza, un redentore. Tutti gli eroi mitici hanno dovuto confrontarsi appunto per questo con mostri, draghi e demoni e addirittura con l’inferno, se volevano diventare forti e capaci di dare salvezza.
L’ombra rende malati – l’incontro con l’ombra rende sani! Questa è la chiave per comprendere malattia e guarigione. Un sintomo è sempre una parte di ombra precipitato nella materia. Nel sintomo si manifesta ciò che manca all’uomo. Nel sintomo l’uomo vive ciò che non voleva vivere nella coscienza. Il sintomo rende l’uomo nuovamente integro attraverso il giro vizioso che passa attraverso il corpo fisico.
È il principio di complementarità che fa si che la globalità in ultima analisi non vada perduta. Se una persona rifiuta di vivere un principio nella propria coscienza, questo principio precipita nel corpo e si manifesta come sintomo. Questo induce la persona a vivere e a realizzare il principio rifiutato. In questo modo il sintomo guarisce la persona - è il sostituto fisico di ciò che manca all’anima.
Ora potremo capire meglio le vecchie domande e risposte: ” Che cosa c’è che non va? Cosa gli manca? “,
e ” Io ho un sintomo “. Il sintomo mostra infatti quello che manca al paziente, perché lo stesso sintomo è il principio mancante divenuto materia e resosi visibile nel corpo. Non fa meraviglia quindi che noi abbiamo così poca simpatia per i nostri sintomi: essi ci costringono a realizzare quei principi che non volevamo vivere. Ecosì continuiamo la nostra battaglia contro i sintomi – senza utilizzare la possibilità che ci era stata offerta di utilizzare i sintomi per guarire. Proprio nel sintomo possiamo imparare a conoscerci, possiamo vedere quei lati della nostra anima che non riusciremmo mai a scoprire in noi, in quanto si trovano nell’ombra. Il nostro corpo è lo specchio della nostra anima – esso ci mostra anche ciò che l’anima non riesce a capire senza sottoporsi a un confronto. A che serve lo specchio migliore del mondo se noi non riferiamo a noi stessi quello che abbiamo visto? Questo libro si propone di aiutare ad esercitare lo sguardo e a renderlo capace di scoprire noi stessi nel sintomo.
L’ombra rende l’uomo disonesto. L’uomo crede sempre di essere soltanto ciò con cui si identifica, o di essere solo così come si vede. Questo modo personale di valutare, secondo noi è disonesto. Naturalmente parliamo sempre di disonestà verso se stessi (e non menzogne o inganni nei confronti di altre persone). Tutti gli inganni di questo mondo sono nulla se confrontati con quelli che l’uomo nel corso della vita fa a se stesso. Onestà nei confronti di se stesso è uno dei compiti più difficili che si possano porre. Per questo da sempre a tutti coloro che cercano la verità viene posto come primo e più difficile compito la conoscenza di se stessi. Conoscere se stessi significa trovare il proprio Sé, non l’Io, perché il Sé comprende tutto, mentre l’Io con le sue limitazioni impedisce costantemente la conoscenza del Sé, che è globalità.
Tuttavia per colui che va cercando una maggiore onestà nei confronti di se stesso, la malattia può divenire un aiuto grandioso. Perché la malattia rende onesti! Nel sintomo patologico noi viviamo chiaramente e visibilmente ciò che nella nostra psiche vogliamo eliminare e reprimere.
La maggior parte delle persone ha difficoltà a parlare liberamente e apertamente dei propri più profondi problemi (ammesso che li conosca…) – tuttavia i propri sintomi li racconta dettagliatamente a tutti. Questo è un modo quanto mai preciso ed esatto di parlare di sé. La malattia rende onesti e svela senza pietà le pieghe più nascoste dell’anima.
Questa (non voluta) onestà è anche la base della simpatia e dell’affetto che si provano nei confronti di chi è ammalato. L’onestà rende l’ammalato simpatico - perché nella malattia l’uomo diventa autentico.
La malattia compensa tutte le unilateralità e riporta al centro. Spariscono gli egoismi e le pretese di potere, molte illusioni vengono di colpo distrutte e il destino viene improvvisamente messo in discussione. L’onestà ha una sua bellezza, e qualcosa di essa si rivela nell’ammalato.
Riassumendo: l’uomo come microcosmo è un’immagine dell’universo e contiene la somma di tutti i principi di esistenza latenti nella propria coscienza. Il cammino dell’uomo attraverso la polarità richiede che egli realizzi concretamente i principi latenti in lui, in modo da prenderne gradualmente coscienza. La conoscenza però ha bisogno della polarità e questa costringe di nuovo l’uomo a prendere continuamente
delle decisioni. Ogni decisione spezza la polarità in un polo che viene accettato e in un polo che viene rifiutato. Il polo accettato viene trasformato in comportamento e quindi integrato a livello cosciente. Il polo rifiutato finisce nell’ombra e continua a richiedere tutta la nostra attenzione, in quanto sembra ritornare a noi venendo dall’esterno. Una forma specifica e frequente di questa legge generale è la malattia. In essa una parte di ombra precipita nella corporeità e si somatizza come sintomo. Il sintomo ci costringe a realizzare attraverso il corpo il principio non accettato volontariamente e riporta quindi l’uomo in equilibrio. Il sintomo è la condensazione somatica di ciò che manca alla coscienza.
Il sintomo rende l’uomo onesto perché rende visibili contenuti repressi.
Tratto da: Malattia e Destino
di T. Dethlefsen e R. Dahlke
Non esistono confini fra te e un oggetto che è accanto a te, proprio come non esiste distanza fra te e oggetti molto lontani. Tutte le cose, le più piccole come le più grandi, sono presenti in te e uguali a te. Un unico atomo contiene tutti gli elementi della terra.
Un solo movimento dello spirito comprende tutte le leggi della vita. In un’unica goccia d’acqua si cela il segreto dell’oceano infinito. Un’unica tua manifestazione rivela tutte le manifestazioni della vita (Kahlil Gibran).
L’uomo dice ” Io ” e con questo termine intende un’infinità di diverse identificazioni:
” Io sono un essere di sesso maschile, di nazionalità tedesca, padre di famiglia, insegnante. Sono attivo, dinamico, tollerante, bravo, amante degli animali, amate della pace, bevo il tè, ho per hobby la cucina, ecc. “. Queste identificazioni sono state a un certo momento precedute da scelte: una possibilità è stata preferita ad un’altra, un polo è stato integrato nell’identificazione mentre l’altro è stato escluso.
Così l’identificazione: ” Io sono attivo e bravo ” esclude automaticamente:
” Io sono passivo e pigro “.
Da un’identificazione deriva per lo più molto rapidamente anche una valutazione: ” Bisogna essere attivi e bravi – non è bene essere passivi e pigri “. Indipendentemente dal fatto che una simile valutazione possa essere sostenuta da argomentazioni e teorie, si tratta in ogni caso di un punto di vista soggettivamente convincente.
Oggettivamente questa è semplicemente una possibilità di vedere le cose – non certo l’unica. Che cosa penseremmo infatti di una rosa rossa che proclamasse: ” È giusto e bello avere dei fiori rossi, e invece è sbagliato e pericoloso averli azzurri “. Il rifiuto di una qualunque manifestazione è sempre, segno di carente identificazione (e in effetti la violetta non rifiuta certo i fiori azzurri!).
Ogni identificazione che si basa su una decisione esclude un polo. Però tutto ciò che noi non vogliamo essere, che non vogliamo ritrovare in noi, che non vogliamo vivere, che non vogliamo che entri a far parte della nostra identificazione, costituisce il nostro lato d’ombra. Infatti il rifiuto della metà di tutte le possibilità non fa certamente si che queste spariscano, ma le bandisce semplicemente dalla identificazione dell’Io o dalla coscienza superiore.
Il ” no ” ha eliminato dalla nostra visuale un polo, ma non lo ha fatto sparire. Il polo rifiutato continua infatti a vivere ininterrottamente nell’ombra della nostra coscienza.
Come i bambini piccoli credono che chiudendo gli occhi si diventi invisibili, allo stesso modo gli uomini credono di potersi liberare di una metà della realtà rifiutando di accettarla dentro di sé. Così si permette a un polo (per esempio la virtù) di entrare nella luce della nostra coscienza, mentre il polo opposto (pigrizia) deve restare nell’ombra, in modo da non vederlo. Il non vedere porta rapidamente a concludere di non avere quella determinata caratteristica e si crede che un polo possa esistere senza l’altro.
Noi definiamo ombra (concetto coniato da C.G. Jung) la somma di tutte le realtà rifiutate, quelle che l’uomo non vede, o non vuol vedere, e che per lui sono quindi inconsce. L’ombra è il pericolo maggiore dell’uomo, perché essa è in lui senza che lui lo sappia. L’ombra fa si che tutte le intenzioni e gli sforzi dell’uomo si trasformino alla fine nel loro opposto. Tutte le manifestazioni che derivano dall’ombra vengono dall’uomo proiettate su un anonimo ” male ” che esisterebbe nel mondo, in quanto ha paura di trovare in se stesso la vera fonte di ogni aspetto negativo.
Tutto ciò che l’uomo non vuole e non desidera, deriva dalla sua propria ombra, che è la somma di ciò che egli non vuole avere. Però il rifiuto di confrontarsi con una parte della realtà e di viverla non porta affatto allo sperato successo. Al contrario, le realtà rifiutate costringono l’uomo ad occuparsi di loro in maniera particolarmente intensa. Questo avviene per lo più attraverso il giro vizioso della proiezione, perché se si è rifiutato e represso in sé un determinato principio, fa sempre paura incontrarlo di nuovo nel cosìddetto mondo esteriore.
Per poter seguire questi rapporti, può essere importante ricordare ancora una volta che col termine ” principi ” noi intendiamo piani di esistenza archetipi che possono manifestarsi in una gigantesca varietà di forme concrete.
Ogni manifestazione concreta è quindi un rappresentante formale di quel determinato principio. Per esempio: la moltiplicazione è un principio. Questo principio astratto può presentarsi a noi nelle più diverse manifestazioni (tre per quattro, otto per sette, 49 per 348, ecc.). Queste espressioni esteriori sono però tutte rappresentanti dell’unico principio della ” moltiplicazione “. Inoltre dobbiamo avere ben chiaro il fatto che il mondo esteriore è costruito coi medesimi principi archetipi di quello interiore. La legge di risonanza afferma che noi possiamo venire in contatto soltanto con ciò che suscita in noi una risonanza. Questa verità, che ho esposto nel mio precedente libro ” Il destino come scelta “, porta all’identità di mondo esteriore e mondo interiore.
Nella filosofia ermetica questa uguaglianza di mondo esteriore e mondo interiore viene rappresentata coi termini di uomo e cosmo: microcosmo = macrocosmo. (Nella seconda parte di questo libro tratteremo ancora una volta questo aspetto nel capitolo dedicato agli organi dei sensi, da un altro punto di vista).
Proiezione significa quindi che noi con una metà dei principi creiamo il fuori in quanto non vogliamo accettarli come dentro. Già all’inizio abbiamo detto che l’Io è responsabile della delimitazione della somma di tutto ciò che esiste. L’Io crea un Tu, che viene vissuto come fuori.
Se però l’ombra è costituita da tutti quei principi che l’Io non ha voluto integrare, in ultima analisi ombra e fuori sono la stessa cosa. Noi sperimentiamo la nostra ombra sempre come fuori – e del resto se fosse dentro di noi o presso di noi non sarebbe più ombra, I principi rifiutati, che apparentemente ci pervengono dall’esterno li combattiamo ora appassionatamente nel mondo esterno a noi proprio come li avevamo combattuti dentro di noi.
Continuiamo cioè nel tentativo di eliminare definitivamente i campi da noi valutati negativi. Dato però che ciò è impossibile in base alla legge di polarità, questo tentativo disperato si trasforma in una occupazione a tempo pieno, che ci garantisce un continuo intenso lavoro con la parte rifiutata della realtà.
Ritroviamo qui una legge ironica cui nessuno può sottrarsi: l’uomo si dedica soprattutto a ciò che non vuole. Nel far questo si avvicina tanto al principio rifiutato che finisce per viverlo!
Il lettore non dovrebbe dimenticare queste parole: il rifiuto di un qualunque principio fa con certezza in modo che la persona viva direttamente questo principio. In base a questa legge i figli col tempo assumono i comportamenti che odiavano nei genitori, i pacifisti diventano militanti, i moralisti licenziosi, gli apostoli della salute si ammalano gravemente.
Non si dovrebbe trascurare il fatto che anche rifiuto e lotta significano in ultima analisi dedizione e attività. I campi veramente interessanti e importanti per una persona sono proprio quelli che evita e combatte, proprio perché mancano nella sua coscienza e gli danno un senso di malessere. Una persona è disturbata soltanto da quei principi esterni a lui che non è in grado di integrare dentro di sé.
A questo punto dovrebbe risultare chiaro che in realtà non esiste un mondo circostante che ci forma, ci influenza o ci fa ammalare – il mondo circostante si comporta come uno specchio nel quale noi vediamo sempre e soltanto noi stessi, per l’esattezza anche e soprattutto la nostra ombra, per la quale in genere siamo ciechi.
Come guardando il nostro corpo fisico riusciamo a vederne soltanto una piccola parte, e non siamo affatto capaci di vederne vari aspetti (colore degli occhi, viso, spalle, ecc.) se non con l’aiuto di un riflesso nello specchio, allo stesso modo per quello che riguarda la nostra psiche siamo parzialmente ciechi e possiamo riconoscere la parte a noi invisibile (ombra) solo tramite la proiezione e il riflesso del cosìddetto mondo esterno o mondo circostante. La conoscenza ha bisogno della polarità. Specchiarsi serve però soltanto a chi si riconosce nello specchio, altrimenti è un’illusione. Chi vede nello specchio i propri occhi azzurri, ma non sa che si tratta dei propri occhi, si illude e non acquista conoscenza. Chi vive in questo mondo ma non si rende conto che tutto ciò che percepisce e vive è lui stesso, rimane nell’illusione e nell’inganno. È vero che l’illusione risulta incredibilmente vera e reale (…certuni parlano addirittura di fatti dimostrabili) però non si dovrebbe mai dimenticare questo: anche un sogno risulta perfettamente reale fintanto che ci troviamo in esso.
Bisogna svegliarsi per rendersi conto che il sogno è un sogno. Questo vale anche per il grande sogno della nostra esistenza. Bisogna prima svegliarsi per poterci render conto dell’illusione. La nostra ombra ci infonde paura. Questo non deve meravigliare, in quanto essa consiste esclusivamente di tutte quelle parti di realtà che abbiamo allontanato il più possibile da noi. L’ombra è la somma di tutto ciò che noi crediamo fermamente che dovrebbe essere eliminato dal mondo affinché il mondo possa essere bello e sano.
Ma le cose stanno esattamente all’opposto: l’ombra contiene tutto ciò che il mondo – il nostro mondo – ha bisogno di avere per sanarsi. L’ombra ci rende malati in quanto ci manca la sua presenza per poter essere interamente sani.
Il racconto del Graal tratta proprio questo problema. Il re Amfortas, ferito dalla lancia del mago Klingsor, o in altre versioni da un avversario pagano o addirittura da un nemico invisibile, è ammalato. Tutte queste figure sono evidentemente chiari simboli dell’ombra di Amfortas, dell’avversario invisibile. La sua ombra lo ferisce e con le sue forze egli non può sanarsi in quanto non osa interrogarsi sulla vera causa della propria ferita. La domanda necessaria da porsi sarebbe però quella circa la natura del male.
Dato che non vuole esporsi a questo conflitto, la sua ferita non può cicatrizzarsi e il re aspetta un redentore che abbia il coraggio di porre la domanda risanatrice. Parzifal è all’altezza di questo compito, perché – come dice il suo nome – egli attraversa la polarità di bene e male e si conquista quindi il diritto di porre la domanda redentrice: “ Di che cosa hai bisogno, zio? “.
La risposta è sempre la stessa, sia che venga da Amfortas che da qualunque altro malato: ” La tua ombra! “.
Soltanto la domanda relativa al male, al lato scuro dell’uomo, ha effetti risanatori nella nostra storia. Parsifal nel suo cammino si è confrontato coraggiosamente con la propria ombra ed è disceso nelle buie profondità della propria anima – fino a maledire Dio. Chi non rinnega questo cammino attraverso le tenebre, diventerà infine un autentico latore di salvezza, un redentore. Tutti gli eroi mitici hanno dovuto confrontarsi appunto per questo con mostri, draghi e demoni e addirittura con l’inferno, se volevano diventare forti e capaci di dare salvezza.
L’ombra rende malati – l’incontro con l’ombra rende sani! Questa è la chiave per comprendere malattia e guarigione. Un sintomo è sempre una parte di ombra precipitato nella materia. Nel sintomo si manifesta ciò che manca all’uomo. Nel sintomo l’uomo vive ciò che non voleva vivere nella coscienza. Il sintomo rende l’uomo nuovamente integro attraverso il giro vizioso che passa attraverso il corpo fisico.
È il principio di complementarità che fa si che la globalità in ultima analisi non vada perduta. Se una persona rifiuta di vivere un principio nella propria coscienza, questo principio precipita nel corpo e si manifesta come sintomo. Questo induce la persona a vivere e a realizzare il principio rifiutato. In questo modo il sintomo guarisce la persona - è il sostituto fisico di ciò che manca all’anima.
Ora potremo capire meglio le vecchie domande e risposte: ” Che cosa c’è che non va? Cosa gli manca? “,
e ” Io ho un sintomo “. Il sintomo mostra infatti quello che manca al paziente, perché lo stesso sintomo è il principio mancante divenuto materia e resosi visibile nel corpo. Non fa meraviglia quindi che noi abbiamo così poca simpatia per i nostri sintomi: essi ci costringono a realizzare quei principi che non volevamo vivere. Ecosì continuiamo la nostra battaglia contro i sintomi – senza utilizzare la possibilità che ci era stata offerta di utilizzare i sintomi per guarire. Proprio nel sintomo possiamo imparare a conoscerci, possiamo vedere quei lati della nostra anima che non riusciremmo mai a scoprire in noi, in quanto si trovano nell’ombra. Il nostro corpo è lo specchio della nostra anima – esso ci mostra anche ciò che l’anima non riesce a capire senza sottoporsi a un confronto. A che serve lo specchio migliore del mondo se noi non riferiamo a noi stessi quello che abbiamo visto? Questo libro si propone di aiutare ad esercitare lo sguardo e a renderlo capace di scoprire noi stessi nel sintomo.
L’ombra rende l’uomo disonesto. L’uomo crede sempre di essere soltanto ciò con cui si identifica, o di essere solo così come si vede. Questo modo personale di valutare, secondo noi è disonesto. Naturalmente parliamo sempre di disonestà verso se stessi (e non menzogne o inganni nei confronti di altre persone). Tutti gli inganni di questo mondo sono nulla se confrontati con quelli che l’uomo nel corso della vita fa a se stesso. Onestà nei confronti di se stesso è uno dei compiti più difficili che si possano porre. Per questo da sempre a tutti coloro che cercano la verità viene posto come primo e più difficile compito la conoscenza di se stessi. Conoscere se stessi significa trovare il proprio Sé, non l’Io, perché il Sé comprende tutto, mentre l’Io con le sue limitazioni impedisce costantemente la conoscenza del Sé, che è globalità.
Tuttavia per colui che va cercando una maggiore onestà nei confronti di se stesso, la malattia può divenire un aiuto grandioso. Perché la malattia rende onesti! Nel sintomo patologico noi viviamo chiaramente e visibilmente ciò che nella nostra psiche vogliamo eliminare e reprimere.
La maggior parte delle persone ha difficoltà a parlare liberamente e apertamente dei propri più profondi problemi (ammesso che li conosca…) – tuttavia i propri sintomi li racconta dettagliatamente a tutti. Questo è un modo quanto mai preciso ed esatto di parlare di sé. La malattia rende onesti e svela senza pietà le pieghe più nascoste dell’anima.
Questa (non voluta) onestà è anche la base della simpatia e dell’affetto che si provano nei confronti di chi è ammalato. L’onestà rende l’ammalato simpatico - perché nella malattia l’uomo diventa autentico.
La malattia compensa tutte le unilateralità e riporta al centro. Spariscono gli egoismi e le pretese di potere, molte illusioni vengono di colpo distrutte e il destino viene improvvisamente messo in discussione. L’onestà ha una sua bellezza, e qualcosa di essa si rivela nell’ammalato.
Riassumendo: l’uomo come microcosmo è un’immagine dell’universo e contiene la somma di tutti i principi di esistenza latenti nella propria coscienza. Il cammino dell’uomo attraverso la polarità richiede che egli realizzi concretamente i principi latenti in lui, in modo da prenderne gradualmente coscienza. La conoscenza però ha bisogno della polarità e questa costringe di nuovo l’uomo a prendere continuamente
delle decisioni. Ogni decisione spezza la polarità in un polo che viene accettato e in un polo che viene rifiutato. Il polo accettato viene trasformato in comportamento e quindi integrato a livello cosciente. Il polo rifiutato finisce nell’ombra e continua a richiedere tutta la nostra attenzione, in quanto sembra ritornare a noi venendo dall’esterno. Una forma specifica e frequente di questa legge generale è la malattia. In essa una parte di ombra precipita nella corporeità e si somatizza come sintomo. Il sintomo ci costringe a realizzare attraverso il corpo il principio non accettato volontariamente e riporta quindi l’uomo in equilibrio. Il sintomo è la condensazione somatica di ciò che manca alla coscienza.
Il sintomo rende l’uomo onesto perché rende visibili contenuti repressi.
Tratto da: Malattia e Destino
di T. Dethlefsen e R. Dahlke
Grazie Marina
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