Senza il corpo non si può parlare, non si può essere visti, non si può essere ascoltati e non si è riconosciuti nemmeno quando si riesce a dare un segnale di sé, manipolando l’energia o le immagini interiori degli interlocutori.
Così, le persone che abbiamo amato e che dopo la morte sono tornate a raccontarci cosa è successo dal momento in cui il loro cuore ha cessato di battere, hanno trovato la porta chiusa, perché la nostra comprensione non prevede altro ascolto che quello uditivo, visivo, tattile, olfattivo o gustativo.
E queste vie di comunicazione sono precluse a chi non possiede più una struttura fisica.
Quando il corpo muore, infatti, rimangono soltanto i legami che abbiamo costruito.
“L’amore che dai è l’amore che resta” ci insegna Miryam Jael Riboldi nel suo bellissimo libro, evidenziando una profonda verità.
Solo l’amore sopravvive al corpo e, dopo la morte, i legami che abbiamo realizzato diventano autostrade in grado di condurci a incontrare i nostri cari.
Ma tutto questo succede in quello stesso spazio interiore in cui li abbiamo amati durante la vita.
Un luogo della coscienza che non tutti frequentano abitualmente.
Il ritmo frenetico che impronta le nostre giornate non prevede l’ascolto dei movimenti emotivi.
La corsa a comprare, lavorare, guadagnare e… comprare ancora, deride il silenzio e l’attenzione necessari a coltivare i sentimenti.
Eppure…
Il benessere e la salute mentale dipendono proprio da quell’ascolto e dal tempo dedicato all’intimità.
Con se stessi e con gli altri.
Quel mondo intimo in cui scopriamo la nostra affettività è ciò che sopravvive alla morte e, quando il corpo non c’è più, la percezione della vita interiore diventa uno strumento prezioso per ricongiungerci con chi abbiamo amato.
Naturalmente questo succede sempre.
Anche quando il corpo lo abbiamo.
Ma durante la vita fisica, tendiamo a privilegiare la concretezza, lasciandoci sfuggire tra le dita l’opportunità di imparare a gestire le profondità dell’amore e dei sentimenti.
Il nostro stile di vita, proteso al raggiungimento del successo e al disprezzo dei valori interiori, è l’ostacolo più grande alla comunione emotiva e impedisce la continuità dell’amore dopo la perdita del corpo fisico.
Le esigenze della civiltà, infatti, non si curano dell’interiorità.
Al contrario, per raggiungere un’affermazione sempre maggiore, è necessario sacrificare la sensibilità e imparare a far finta di niente davanti ai soprusi necessari per ottenere il benessere previsto dall’economia.
In questo scenario, la morte diventa inevitabile e funzionale al potere dei pochi sui molti.
Che si tratti di una legge naturale, della catena alimentare, dell’homo homini lupus o di altre cose del genere, il risultato non cambia: per vivere bisogna uccidere e per uccidere bisogna zittire la propria sensibilità, ammutolire il cuore, imbavagliare l’empatia e trasformarsi in cinici robot, indifferenti davanti alla sofferenza di chi è considerato inferiore, strumento di soddisfazione del più forte.
Nella cultura della sopraffazione, quella stessa morte che infliggiamo quotidianamente con leggerezza (per divertimento, per interesse, per soddisfare i piaceri del palato o perché si è sempre fatto così) diventa un mostro con cui non è più possibile confrontarsi.
La barriera che impedisce la continuità dell’amore, quello con la A maiuscola.
L’amore, infatti, non può convivere con l’uccisione e con la violenza di cui ogni giorno siamo mandanti e vittime.
Nascondere a noi stessi l’orrore che sta dietro una società improntata alla prevaricazione e al dominio dei forti sui deboli, ci spinge a nascondere il valore delle cose che non si vedono e impedisce che l’evoluzione interiore possa proseguire il suo percorso.
Sia prima sia dopo la perdita del corpo.
I nostri cari tornano sempre a raccontarci cosa succede dopo la morte, cercando di creare un ponte che unisca le dimensioni della coscienza: quella fisica della materialità e della concretezza e quella intima dei sentimenti e dell’impalpabilità dell’Amore.
Il tentativo di costruire una comunione che sopravviva alla morte del corpo, è un’esigenza ancestrale che tutti noi ci portiamo dentro e che annientiamo con sofferenza, per riuscire a omologarci alla nostra società dei consumi.
Consumare, infatti, tiene in piedi l’economia e il potere dei pochi sui molti, ma annienta la sensibilità e la creatività indispensabili per vivere con pienezza l’esistenza.
La morte ci riporta bruscamente al valore dell’immaterialità e del mondo della sensibilità ma, per accogliere il messaggio di chi abbiamo amato, è indispensabile permettersi l’empatia e camminare nel mondo dei sentimenti senza paura.
Senza sentirsi ridicoli, stupidi, ingenui, infantili, visionari, creduloni o poco intelligenti.
E, soprattutto, senza dover nascondere a se stessi le morti inflitte a cuor leggero:
“… perché si è sempre fatto così e perchè, si sa, nella nostra civiltà uccidere è indispensabile.”
Carla Sale Musio
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